Guillelmus de Moerbeke - n. 29 | TE.TRA.
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Guillelmus de Moerbeke

(n. 1215 ca., m. 1286)


 

volume 8 anno 2023 pp. 511-20 / Saccenti, Riccardo

versione digitale del De coloribus ideazione Lucia Castaldi elaborazione Luisa Fizzarotti informatizzazione Matteo Salvestrini acquisizione fondi di Lucia Castaldi SISMEL Firenze direzione del progetto Lucia Castaldi supervisione Lucia Castaldi impostazione metodologica Lucia Castaldi Luisa Fizzarotti visualizzazione Matteo Salvestrini Università degli Studi di Udine SISMEL. Società Internazionale per lo studio del Medioevo Latino Saggio pp. 511-20 SISMEL Saccenti, Riccardo SISMEL. Edizioni del Galluzzo Firenze 2023 Information about the source DE COLORIBUS Riccardo Saccenti Fra i testi pseudo-aristotelici che conoscono una traduzione latina nei decenni centrali del XIII secolo vi è un Περὶ χρομάτον, rispetto al quale il primo censimento dell’Aristoteles Latinus condotto da Georges Lacombe aveva già individuato un cospicuo numero di testimoni. Questo breve scritto contiene una trattazione circa la natura dei colori, ricondotta ad una serie di dinamiche fisiche. Da un lato, l’indagine prende in considerazione i diversi equilibri di bianco e nero e la diversa intensità della luce come cause dei diversi colori, dall’altro passa in esame le molteplici cause e circostanze che in natura determinano la infinita gradazione di colori. Si arriva poi ad esamine come il mutare dei colori sia connesso ad aspetti biologici, come la crescita e l’appassire delle piante o il mutare di colore di capelli e pelle. Per quanto attiene alla fortuna latina dell’opera, il De coloribus – questo il titolo che assume nelle traduzioni – figura come opera tràdita da almeno 80 manoscritti, ai quali se ne aggiunge uno, il codice Firenze, Biblioteca Medicea Laurenziana, Plut. 13 sin. 6, contenente una diversa versione del testo per altro mutila1. In un lavoro estremamente dettagliato sulla tradizione latina del trattato, Ezio Franceschini aveva contribuito a fissare i criteri per uno studio critico del testo e per ricerche miranti al conseguimento di un’edizione critica2. Lo studio di Franceschini offriva un primo sistematico studio delle due traduzioni del De coloribus, che Lacombe aveva indicato come translatio vulgata nel caso di quella più diffusa e translatio antiqua con riferimento alla versione contenuta nel codice laurenziano. Franceschini aveva discusso nel dettaglio le relazioni fra i due testi, offrendo una comparazione fra la translatio antiqua, che si interrompe all’inizio del terzo capitolo dell’opera, e il testo della vulgata stabilito sulla base della collazione integrale di sette testimoni3. Nello specifico, Franceschini utilizza i manoscritti: Venezia, Biblioteca Nazionale Marciana, lat. IV. 33 (sec. XIV) Venezia, Biblioteca Nazionale Marciana, lat. VI. 38 (sec. XIII) Venezia, Biblioteca Nazionale Marciana, lat. VI. 49 (sec. XIV1/2) Venezia, Biblioteca Nazionale Marciana, lat. Z 234 (sec. XIV) Firenze, Biblioteca Medicea Laurenziana, Fies. 167 (secc. XIII ex. - XIV in.) Firenze, Biblioteca Medicea Laurenziana, Plut. 84.3 (sec. XIII ex.) Firenze, Biblioteca Medicea Laurenziana, Ashburnham 1674 (sec. XIII ex.) I risultati di tale lavoro critico e filologico mostravano con chiarezza la distanza fra i due testi, indipendenti l’uno dall’altro quanto alla traduzione greco-latina e anche distinguibili come opera di autori diversi in ragione delle relative caratteristiche stilistiche. Seguendo in questo un metodo già delineato da Lorenzo Minio Paluello, Franceschini passava in rassegna le modalità di traduzione di alcuni termini, nello specifico preposizioni o particelle, oltre che di una parte del lessico filosofico del testo, servendosene come di “marcatori” dello stile del traduttore. In tal modo egli aveva concluso che la translatio vulgata era opera da attribuire a Bartolomeo da Messina, mentre la antiqua era in realtà opera di Guglielmo di Moerbeke4. Rispetto a tali conclusioni, che propendevano per un lavoro indipendente dei due traduttori, Minio Paluello appariva più prudente, giudicando il lavoro di Guglielmo come un tentativo di rivedere la versione di Bartolomeo, là dove Josef Brams seguiva invece Franceschini nel sostenere la completa indipendenza delle due traduzioni e nell’ascrivere la translatio di Moerbeke al primo periodo della sua attività di traduttore5 In anni recenti il De coloribus è stato oggetto di studi più accurati e puntuali che sono tornati sul tema della paternità delle due traduzioni e delle relazioni fra di esse, come anche su quello della circolazione manoscritta e della fortuna dell’opera che appare limitata sul piano, del suo utilizzo, al discorso scientifico e filosofico del XIII-XV secolo. I lavori di Pieter Bullens, Gudrun Vuillemin-Diem e Lisa Devriese hanno contribuito ad arricchire il quadro delle conoscenze relative a questo testo e rappresentano la base oggi disponibile per una edizione critica dell’opera6. La translatio vulgata, ad un esame accurato delle sue caratteristiche letterarie, mostra alcuni chiari elementi di affinità con lo stile di Bartolomeo da Messina. Nella sua analitica rassegna, Bullens ha mappato le modalità di traduzione di particelle, avverbi e pronomi, congiunzioni ed elementi semantici, operando un raffronto sistematico fra quanto emerge dal testo del De coloribus e quanto si riscontra nelle altre traduzioni di Bartolomeo. In tal modo emerge come la particella greca δὲ venga resa per lo più con il latino autem e in casi più rari con vero, mentre nella quasi totalità delle circostanze γάρ è tradotto con enim. Ugualmente, per quanto attiene agli avverbi, la translatio vulgata appare sostanzialmente stabile nel seguire alcune traduzioni puntuali. Il greco εὐθύς viene infatti tradotto sempre con il latino mox, mentre ὅλως viene reso con universaliter e in altri casi con omnino o penitus. Anche nel caso di τοιοῦτος emerge una netta preferenza per la resa latina huiusmodi, che in un caso diviene huiuscemodi e in un numero ristretto di occorrenze hic e talis. Lo stesso lavoro di costruzione di una resa lessicale puntuale in latino si ritrova nelle traduzioni di congiunzioni greche. Nel caso della congiunzione διό si trovano sia la traduzione propter quod sia unde, con una scelta che chiaramente tende a differenziare la traduzione di questa particella da quella di διά, resa per lo più con il latino quia. A questo si aggiunga che καθάπερ viene reso, nella quasi totalità dei casi, con sicut, mentre ὅταν viene tradotto sempre con quando, πλήν con nisi, ὥσπερ con sicut e ὥστε con quare. Particolarmente rilevante è il caso della traduzione latina di alcuni termini filosoficamente e scientificamente rilevanti nell’economia del discorso sviluppato nel trattato. La vulgata tende a ridurre e quasi annullare i casi di traslitterazioni dal greco, pratica per altro diffusa nella traduzione di testi che presentano un linguaggio tecnico molto puntuale. Così, come nota Bullens, ἁλουργής e ἁλουργός sono tradotti con purpureus, puniceus e muriceus, mentre ξανθός è reso con i termini rubicundus, rubeus e flavus. Allo stesso ambito semantico del colore rosso sono poi collegate le traduzioni dei termini greci πυρρός e φοινικοῦς, tradotti rispettivamente con rubeus e flavus e con rubeus, finicus e puniceus7. Rispetto a queste caratteristiche, la translatio antiqua presenta una forma stilistica profondamente diversa. A cominciare dal fatto che la congiunzione διά viene tradotta con propter, ossia con una scelta che, rispetto alla versione vulgata, tende a impiegare il latino più per pervenire ad un calco del testo greco che alla costruzione di un testo coerente sul piano sintattico. Ugualmente, ὅλως viene tradotto con totaliter e omnino e τοιοῦτος viene reso sempre con talis. Si tratta di un elemento già messo in luce con efficacia da Franceschini, il quale comparava alcuni passi delle due traduzioni per evidenziarlo. Così, il passo greco: «καὶ γὰρ τούτων οἰνωπὸν φαίνεται τὸ χρῶμα ἐν τῷ πεπαίνεσθαι», vien tradotto dalla vulgata con: «et enim horum vinosus videtur color in commaturando», e dalla antiqua con: «et enim horum vinosus videtur color cum fuerint maturati»8. Il testo della antiqua appare assai più letterale di quello della vulgata, che si presenta come più attenta alla sintassi della lingua di arrivo della traduzione, anche a costo di discostarsi dal calco del greco di origine. Questa peculiarità delle due traduzioni si riproduce anche nel caso dei participi, che la antiqua tende a replicare anche in latino, mentre la vulgata spesso scioglie in forme verbali più articolate. Ad esempio, il greco «κατ’αὐτὸ τὸ φαινόμενον» viene tradotto con «secundum id quod videtur» dalla vulgata e con la forma più letterale di «secundum ipsum apparens» dalla antiqua. La distanza rispetto alla translatio vulgata si amplia allorché si prendono in considerazione le numerose traslitterazioni greche di termini appartenenti al lessico filosofico e scientifico. In questa circostanza, dunque, ἁλουργής e ἁλουργός sono tradotti con alurges e alurgus, ξανθός con xanthos e infine φοινικοῦς con puniceus. Si tratta di una conferma della tendenza a tradurre “ricalcando” l’originale greco sia sul piano sintattico che su quello grammaticale e terminologico, così che la scelta del traduttore della antiqua appare quella di una restituzione in lingua latina del testo di partenza. Sulla base di queste analisi Bullens ha potuto confermare l’originaria posizione di Franceschini, ascrivendo dunque la translatio antiqua a Guglielmo di Moerbeke e la vulgata a Bartolomeo da Messina. Una attribuzione che appare pienamente coerente con le peculiarità dello stile dei due traduttori, più preoccupato di una resa latina strettamente fedele all’originale greco il primo, disposto a spingersi maggiormente sul terreno dell’interpretazione del testo per arrivare ad una buona resa latina il secondo. E tale diversità, secondo l’analisi di Vuillemin-Diem, diviene anche espressione della indipendenza piena dei due progetti editoriali. Da quanto emerge da uno studio delle relazioni fra le due versioni appare cioè chiaro come Bartolomeo e Guglielmo lavorino in modo indipendente sul testo greco. Inoltre, un esame delle due traduzioni suggerisce un utilizzo di due manoscritti greci diversi fra loro, appartenenti ad aree diverse della tradizione testuale. Bartolomeo sembra infatti ricorrere ad un testo assai vicino a quello conservato nel codice Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana, Urb. gr. 37, che porta la sigla M nell’edizione critica. Diversamente Guglielmo dimostra di tradurre da un codice prossimo a E, ossia al manoscritto Paris, Bibliothèque nationale de France, gr. 18539. La distanza che separa le due traduzioni del De coloribus può certamente essere ricondotta a dati di ordine cronologico e biografico. È possibile, come tende a pensare una parte rilevante degli studiosi che lavorano sul testo, che i due abbiano lavorato in modo quasi sincronico alla traduzione del testo: Bartolomeo negli anni del regno di Manfredi e dunque nel quadro del proprio progetto di traduzioni filosofiche e scientifiche, Guglielmo nella prima fase della propria opera, prima di arrivare a misurarsi con testi ben più complessi. Certamente questo obbliga a ripensare anche le forme e le dinamiche di circolazione testuale relative alle traduzioni di opere filosofiche nei decenni centrali del XIII secolo e che vedono coinvolti proprio i due traduttori. È infatti dato acquisito dalla ricerca storico-critica il fatto che Bartolomeo e Guglielmo abbiano fatto uso, in circostanze non occasionali, degli stessi codici greci per il proprio lavoro di traduzione10. E tuttavia, la netta indipendenza delle rispettive versioni del De coloribus chiarisce come non si sia di fronte ad un caso di correzione di una traduzione nota già esistente, ma di due chiare iniziative intellettuali pienamente autonome l’una dall’altra. Un chiarimento di questi nodi storico-letterari richiede un’edizione critica del testo, capace di comporre assieme l’indagine filologica sul testo latino con lo studio delle dinamiche di trasmissione, come anche del processo di traduzione e del nesso fra traduzione latina e tradizione testuale greca. A tale proposito, il lavoro di ricerca di Lisa Devriese ha permesso di evidenziare due aspetti particolarmente rilevanti della storia della circolazione di questo testo in ambito latino. Il primo è l’esistenza di una diffusa presenza dell’opera nelle collezioni del corpus aristotelico già a partire dall’ottavo decennio del XIII secolo, dunque ad uno stadio particolarmente precoce della tradizione testuale. Accanto a questo è emersa la peculiarità di un’opera poco frequentata dagli studi universitari e dall’attività di commento e discussione dei magistri, con alcune eccezioni non secondarie. Quanto al primo tema, Devriese elenca sette manoscritti databili fra 1270 e 1290, nei quali il De coloribus viene trascritto. Il primo manoscritto, sul piano cronologico, è il Paris, Bibliothèque nationale de France, lat. 16633, che fa parte della collezione di codici lasciati da Gerardo di Abeville in dono alla biblioteca del Collège de Sorbonne al momento della morte nel 127211. Se si considera come arco di datazione della tradizione del De coloribus realizzata da Bartolomeo la sua presenza alla corte di Manfredi, ossia gli anni compresi fra 1258 e 1266, e si combina questo dato con la data di morte di Gerardo, il codice parigino può essere collocato in un arco ristretto di tempo, verosimilmente nella parte finale del settimo decennio del XIII secolo. Il testo contiene una edizione dei Problemata a cui fa seguito il De coloribus. Significativamente i due testi vengono presentati come complementari l’uno all’altro: nell’indice dei Problemata di Aristotele infatti viene indicata un’ultima particula dedicata proprio alla trattazione del tema del colore, che tuttavia risulta mancante nel testo12. Si legge infatti nell’explicit (f. 120ra): «Vltima particula que est circa colores deficit hic. quia non erat in greco exemplari. Verumptamen de hoc per se determinatum est in libro de coloribus. qui sequitur inmediate post istum». In questo modo il De coloribus viene introdotto come il testo che, almeno sul piano dottrinale, completa il piano dei contenuti dei Problemata dal momento che, questo sembra il senso del colophon del codice parigino, il manoscritto greco su cui è basata la traduzione dei Problemata condotta dallo stesso Bartolomeo da Messina era mutilo dell’ultima parte dell’opera dedicata al tema del colore. Un secondo codice, databile agli inizi dell’ultimo quarto del XIII secolo, è il Paris, Bibliothèque Mazarine 3458, che porta la nota di possesso (f. 442): «Liber Lamberti de Leodio, dictus de Exst. Castrum». Il codice presenta una ampia collezione di opere aristoteliche, distribuite fra opere fisiche e metafisiche. Vi si trovano così la Fisica come anche trattati minori come il De somno et vigilia o il De longitudine et brevitate vitae, ma anche testi pseudo-aristotelici come la Phisionomia (cioè la Physiognomonica), il De lineis indivisibilibus, il De inundatione Nili e, appunto, il De coloribus (ff. 224r-230r). A concludere la collezione vi è poi la Metafisica, seguita dal De bona fortuna e dal Liber de causis13. Sempre alla stessa collocazione cronologica risale il codice Cambridge, Fitzwilliam Museum, McClean 154, copiato a Parigi da Iohannes Gallenses, ossia Giovanni del Galles, un teologo francescano che nel 1270 arriva a Parigi e vi resta fino alla data della morte nel 1285. È verosimilmente in questo lasso temporale che si colloca la copiatura di questo manoscritto che nella forma e nei contenuti rispecchia la produzione libraria universitaria legata allo studio della filosofia naturale di Aristotele14. Il De coloribus (ff. 248vb-254vb) si trova infatti copiato all’interno di una serie di testi che si apre con la Fisica e raccoglie la quasi totalità delle opere fisiche e di filosofia naturale del corpus aristotelico, concludendosi, come nel caso del codice della Bibliothèque Mazarine, con il Liber de causis. Il manoscritto Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana, Vat. lat. 2083 ha invece una precisa data di completamento, ossia il 1284, indicata nella nota che chiude il codice. Anche questo manoscritto vede il De coloribus (ff. 89vb-92vb) all’interno di una vasta collezione di testi aristotelici e pseudo-aristotelici, che si apre con la Metafisica nella versione di Guglielmo di Moerbeke e include la Physica come anche le opere minori di fisica e metafisica15. Simile è il caso del codice Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana, Barb. lat. 165, anch’esso raccolta ampia di testi aristotelici nel quale è contenuto il De coloribus (ff. 389vb-391vb) e che è databile con precisione al 128816. Lo indica, anche in questo caso, una nota posta a conclusione del manoscritto in cui è esplicitata la data di completamento del codice17. Altro manoscritto datato, anch’esso preservato nella biblioteca Vaticana, è il Borgh. 127, che risulta completato nel 129618. Il De coloribus (ff. 235v-239v) è anche qui inserito in un’ampia collezione di testi aristotelici e pseudo-aristotelici e viene trasmesso con altre opere spurie, come la Physiognomonica, il De inundatione Nili e il De lineis indivisibilibus. L’ultimo codice datato al XIII secolo è il Paris, Bbliothèque nationale de France, latin 16088, che al f. 190v presenta una nota che ne registra l’ingresso nella biblioteca del collegio della Sorbona a seguito del lascito testamentario di «magister Nichosius de Planca», ossia di Nychosius de Plank, morto nel 1300. Anche questa si presenta come una vasta collezione di testi aristotelici e pseudo-aristotelici, che riflette quel corpus recentius che, oltre alle versioni di Guglielmo di Moerbeke, include anche quelle di Bartolomeo da Messina. L’inclusione del De coloribus nell’insieme dei testi aristotelici diffusi nel quadro dell’insegnamento filosofico nelle facoltà delle arti spiega la vasta circolazione della traduzione di Bartolomeo, che molto spesso si ritrova assieme ad altre opere pseudo-aristoteliche. Al tempo stesso, come Devriese ha sottolineato, il successo “editoriale” della traduzione non sembra accompagnato da una specifica attenzione da parte dei magistri del XIII e XIV secolo. Manca infatti una tradizione di commento del testo paragonabile a quella di altre opere del corpus aristotelico e anche i codici in cui si attesta un sistema di glosse che ne dimostra una lettura sistematica e legate all’attività di uno studium o di un magister appaiono assai rari. In anni più recenti è tuttavia emerso almeno un commento, presente lungo i margini della copia del De coloribus preservata nel codice Saint- Omer, Bbliothèque de l’Agglomération du Pays de Saint-Omer (olim Bibliothèque municipale) 59219. Come negli altri casi citati in precedenza, anche questo codice consta di una vasta raccolta di opere aristoteliche e pseudo-aristoteliche secondo lo schema del corpus recentius e fra di esse vi è anche il trattato sui colori ai ff. 111rb-114rb20. Il commento è da ricondurre al teologo Berthaud de Saint-Denis, morto nel 1307, e una ulteriore copia del commento è emersa nei marginalia del manoscritto Melk, Stiftsbibliothek 1858, ff. 147-16121. Al commento di Berthaud si aggiungono ben pochi codici che presentano annotazioni di rilievo al testo: degli 81 manoscritti che trasmettono l’opera, Devriese ne ha individuati solo tre con alcune annotazioni che indicano una lettura attenta del contenuto22. Accanto a questa scarsa presenza di commenti e apparati di glosse, il De coloribus sembra aver goduto di una limitata attenzione anche nel quadro della produzione magisteriale di matrice universitaria. Del testo pseudoaristotelico fa menzione Enrico Bate (1246-310) nel suo Speculum divinorum et quorundam naturalium23. Allo stesso modo il trattato è richiamato da Alberto Magno, Teodorico di Freiberg e Jean de Jandun24. Come ha notato Devriese, nessun altro autore, pure fra quanti sono più addentro allo studio della filosofia naturale, mostra una conoscenza del De coloribus che dunque associa alla considerevole diffusione manoscritta quello che sembra essere uno scarso impatto sul dibattito filosofico e scientifico del XIII e XIV secolo. Questo, forse, a motivo della presenza coeva di numerose e più sistematiche trattazioni sul tema del colore e della sua natura, che facevano apparire di minor rilievo il contenuto di questo testo pseudo-aristotelico. A questo si somma, a giudizio di Devriese, il fatto che il De coloribus appare come un’opera nella quale l’attenzione si sposta sulla dimensione pratica della genesi del colore piuttosto che sulla elaborazione teoretica di una compiuta teoria del colore. Questa natura meno teoretica avrebbe contribuito a porre in secondo piano il testo all’interno del corpus aristotelico, rendendolo meno interessante per la sensibilità degli autori della fine del XIII e del XIV secolo.

Notes

  1. G. Lacombe (ed.), Aristoteles Latinus. Codices I, Roma 1939, p. 90.
  2. E. Franceschini, Sulle versioni latine medievali del Περὶ χρομάτον, in Autour d’Aristote. Recueil d’Etudes de philosophie ancienne et médiévale offert à Monseigneur A. Mansion, Louvain 1955, pp. 451-69; riedito in Id., Scritti di filologia latina medievale, II, Padova 1976, pp. 654-73.
  3. Secondo l’edizione Bekker delle opere aristoteliche, il testo della translatio antiqua si interrompe a 793a9.
  4. Franceschini, Sulle versioni latine medievali del Περὶ χρομάτον cit., pp. 669-71.
  5. L. Minio Paluello, Moerbecke, William of, in Dictionary of Scientific Biography, IX, cur. Ch. C. Gillispie, New York 1974, pp. 434-40; J. Brams, La Riscoperta di Aristotele in Occidente, Milano 2003, pp. 115 e 123.
  6. P. Bullens, True Colours: The Medieval Latin Translations of De coloribus, in Translating at the Court: Bartholomew of Messina and Cultural Life at the Court of Manfred, King of Sicily, cur. P. De Leemans, Leuven 2015, pp. 165-201; G. Vuillemin-Diem, Revision der Translatio Bartholomaei oder Neuüberseztung? Zu dem Fragment von De coloribus des Wilhelm von Moerbeke, in Translating at the Court cit., pp. 203-47; L. Devriese, The Colorless History of Pseudo-Aristotle’s De Coloribus, «Early Science and Medicine», 26 (2021), pp. 254-88.
  7. Bullens, True Colors cit., p. 179.
  8. Cfr. Franceschini, Sulle versioni latine cit., p. 665.
  9. Riguardo alla tradizione greca del testo si fa riferimento all’edizione di M. F. Ferrini, Pseudo Aristotele. I Colori, Pisa 1999. Si vedano anche W. S. Hett (ed.), Aristotle, On Colours, Cambridge 1936; H. B. Gottschalk, The De coloribus and Its Author, «Hermes», 92 (1964), pp. 59-85: G. Wöhrle (ed.), Aristotle, De coloribus, in Aristoteles. Werke in deutscher Übersetzung, XVIII, berlin 1999.
  10. Cfr. P. Bullens, Supplement to the Aristoteles Latinus. An Unknown Manuscript of Moerbeke’s Translation of the Metaphysica, «Recherches de théologie et philosophie médiévales», 69 (2002), pp. 66-87.
  11. Cfr. f. 110r: «Iste liber est pauperum magistrorum de sorbona studencium in teulogica facultate ex legato magistri giraldi de abbatis uilla». Su questo si veda S. Metzger, Gerard of Abbeville, Secular Master, On Knowledge, Wisdom and Contemplation, I, Leiden-boston 2017, pp. 4-7.
  12. Al f. 2rb si legge infatti, a conclusione dell’indice dei Problemata: «De hiis que sunt circa colorem».>
  13. Sul manoscritto si vedano Lacombe, Aristoteles Latinus. Codices I cit., p. 489, n. 521; L. Thorndike, A History of Magic and Experimental Science. T. 2. During the First Thirteen Centuries of Our Era, New York-London 1964, p. 250, n. 6; A. Marco, Averroes in Physicam. Il manoscritto San Marco 175 della Biblioteca Laurenziana. Appunti per una nuova lettura aristotelica della “Tempesta” di Giorgione, in Il codice miniato laico, rapporto fra testo e immagine. Atti del IV Congresso di Storia della Miniatura, Cortona 1992, cur. M. Ceccanti, Firenze 1997, pp. 217-30; G. Vuillemin-Diem (ed.), Aristoteles Latinus. XI. Meteorologica. Translatio Guillelmi de Morbeka. I. Prefatio. II. Editio textus, Turnhout 2008; H. Wimmer, Illustrierte Aristotelescodices. Die medialen Konsequenzen universitärer Lehr- und Lernpraxis in Oxford und Paris, Köln 2018.
  14. Per una descrizione del manoscritto e dei suoi contenuti si veda M. R. James, A Descriptive Catalogue of the McClean Collection of Manuscripts in the Fitzwilliam Museum, Cambridge 1912, pp. 300-2; Lacombe, Aristoteles Latinus. Codices I cit., n. 255, e più di recente R. M. Thomson, Catalogue of Medieval Manuscripts of Latin Commentaries on Aristotle in British Libraries. II. Cambridge, Turnhout 2013, pp. 35-6.
  15. Sul manoscritto si vedano G. Vuillemin-Diem, Jakob von Venedig der Übersetzer der «Physica Vaticana» und «Metaphysica media», «Archives d’histoire doctrinale et littéraire du Moyen Âge», 41 (1974), pp. 7-25; G. Vuillemin-Diem, Zu Wilhelm von Moerbekes Übersetzung der aristotelischen Meteorologie. Drei Redaktionen, ihre griechischen Quellen und ihr Verhältnis zum Kommentar des Alexander von Aphrodisias, in Tradition et traduction. Les textes philosophiques et scientifiques grecs au Moyen Âge latin. Homage à Fernand Bossier, curr. R. Beyers et alii, Leuven 1999, pp. 115-66; P. De Leemans, «Reductio ad auctoritatem». The Medieval Reception of Pseudo-Aristotle’s «Epistola ad Alexandrum», «Recherches de théologie et philosophie médiévales», 84 (2017), pp. 245-83.
  16. Sul manoscritto si veda Lacombe, Aristoteles Latinus. Codices. II., Cambridge 1955, n. 1717; L. Thorndike, Vatican Latin Manuscripts in the History of Science and Medicine, «Isis», 13 (1929), pp. 53-102; M. J. Soto Bruna (ed.), De unitate et uno de Dominicus Gundissalinusi, C. A. del Real Pamplona 2015, p. 88.
  17. Cfr. f. 402v: «Anno Domini 1288 factus fuit; anno 1000 et 200 et 88 fuit completus iste liber».
  18. Sul manoscritto si veda C. H. Lohr, Medieval Latin Aristotle Commentaries. Authors: Robertus- Wilgelmus, «Traditio», 29 (1973), pp. 93-197; De Leemans, «Reductio ad auctoritatem» cit.
  19. Cfr. Lacombe, Aristoteles Latinus I cit., n. 422; S. J. Livesey, Science in the Monastery. Texts, Manuscripts and Learning at Saint-Bertin, Turnhout 2020, pp. 200-4.
  20. Il commento era stato segnalato per la prima volta all’attenzione degli studiosi da De Leemans ed è poi stato preso in considerazione da Devriese nel suo studio sulla fortuna del De coloribus. Cfr. P. De Leemans, Per episcopum Aurelianensem… A New Attribution of the Commentary on Aristotle’s De progressu animalium in Ms. Bologna, Collegio di Spagna 159, in Edizioni, traduzioni e tradizioni filosofiche (secoli XII-XVI). Studi per Pietro B. Rossi, curr. L. Bianchi - O. Grassi - C. Panti, Roma 2018, pp. 273-84; Devriese, The Colorless History cit.
  21. Cfr. Devriese, The Colorless History cit.
  22. Si tratta dei manoscritti Paris, Bibliothèque nationale de France, lat. 6552, Venezia, Biblioteca Nazionale Marciana, lat. VI. 49 e Salamanca, Universidad de Salamanca. Biblioteca General Histórica, Ms. 2055, dove questi ultimi due codici presentano lo stesso insieme di annotazioni poste in apertura del trattato. Cfr. Devriese, The Colorless History cit.
  23. Cfr. E. Van de Vyver (ed.), Henricus Bate de Mechlinia, Speculum divinorum et quorundam naturalium, LeuvenParis 1960.
  24. Cfr. A. Borgnet (ed.), Albertus Magnus, In libros Topicorum, lib. 6, tr. 6, c. 2, in Alberti Magni Opera omnia, II, Paris 1890, p. 470; M. R. Pagnoni-Sturlese - R. Rehn - L. Sturlese - W. A. Wallace (edd.), Theodoricus, Tractatus de iride et de radialibus impressionibus II, 4, in Dietrich von Freiburg. Opera omnia, tom. IV: Schriften zur Naturwissenschaft, Briefe, Hamburg 1985, p. 152; Iohannes de Janduno, Quaestiones in octo libros Aristotelis de physico auditur, Venetiis 1544, prologus, secunda pars, III.

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