Le
artes amatoriae d'età medievale sembrano prefiggersi quale scopo evidente l'insegnamento della simulazione dell'amore sul piano del comportamento, tramite la scelta di parole e di atteggiamenti adeguati, appositamente studiati per ogni circostanza. L'A. sostiene che tali trattati, in maniera in parte analoga a quanto si osserva nel loro prototipo classico di riferimento, l'
Ars amatoria di Ovidio, si fondino sul presupposto di base, secondo cui l'esercizio quasi di recitazione e la messa in pratica (e in scena) di gesti e di parole associate con un'emozione siano i punti di partenza per fare esperienza di questa stessa emozione, provandone gli effetti: tali
artes dunque elaborano strategie di comportamento atte a suscitare dapprima la parvenza e poi l'emozione del sentimento amoroso nel seduttore, cioè in colui che ne interpreta i segni indiziari. In quest'ottica, l'A. analizza la sezione del
Roman de la Rose scritta da Guglielmo di Lorris, in cui si rileva il progressivo annullamento della distanza fra l'amante e il narratore, anche attraverso una serie di rimandi a testi mediolatini coevi o precedenti, dove si fa riferimento alle caratteristiche e alle tecniche induttrici di tale moto dell'animo (le
Glosae super Platonem di Guglielmo di Conches, l'
Ars versificatoria di Matteo di Vendôme, il
Tractatus de quattuor gradibus violentae caritatis di Riccardo di San Vittore), giungendo alla conclusione che il fine latente delle
artes amatoriae era quello di insegnare ai lettori il modo di controllare l'arte dell'innamoramento, con il probabile intento di renderli pronti e idonei ad accettare matrimoni vantaggiosi dal punto di vista sociale.
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