Sull'attribuzione dell'appellativo di
stoicus ad Avicebron da parte di Alberto Magno, che non rifletterebbe tanto una scarsa conoscenza dello stoicismo da parte del Doctor universalis, quanto una sua personale interpretazione, dotata di coerenza e originalità. Si considera innanzitutto la ricezione del filosofo arabo nel medioevo, a cominciare dalla diffusione del
Fons vitae in Occidente, tradotto in latino da Domenico Gundislavi e Giovanni Ispano. Nel trattato, di carattere metafisico, Avicebron sostiene che l'uomo ha l'obiettivo di conoscere il mondo esteriore e di ricondurlo all'unità della sua origine, risalendo progressivamente alle varie determinazioni che costituiscono il reale. Si illustrano poi i temi che assicurarono al
Fons vitae un'ampia fortuna nel medioevo, fra cui la concezione ilomorfica della realtà, la dottrina della pluralità delle forme, l'idea dell'esistenza delle
rationes seminales e del primato della volontà sull'intelletto nel definire l'attività di Dio. L'interesse è poi rivolto alla ricezione del pensiero di Avicebron da parte di Alberto; all'interno della
Physica, egli ne dà un giudizio sostanzialmente negativo: se nel professare la dottrina ilomorfica riesce a mantenersi in un orizzonte aristotelico, la scelta di negare l'esistenza di
virtutes incorporee nei corpi lo allontanerebbe tuttavia da esso, avvicinandolo piuttosto allo stoicismo. Le ragioni di quest'attribuzione andrebbero ricercate nella riflessione di Alberto su uno dei temi centrali al pensiero della Stoà: la connessione delle virtù alla ragione; nel commentare gli
Analytica posteriora, egli sottolinea infatti che tale concetto si basa sulla teoria platonica della reminescenza esposta nel
Menone, di cui Alberto legge le citazioni fornite nell'opera di Aristotele. Essa è fondata, a propria volta, sulla dottrina della
latentia formarum di Anassagora, che si rivela tuttavia errata nell'affermare la materialità univoca delle sostanze corporee, incorporee e dell'intelletto umano, inconciliabile col pensiero albertino, in linea con l'idea aristotelica secondo cui la materia, nel suo rivelarsi, accoglie in modo completo e attuale le virtù. La questione è poi ripresa anche nel commento al
De anima, dove Alberto si sofferma in particolare sull'erronea identificazione tra intelletto e materia prima, in cui cade, assieme ad Avicebron e agli stoici, anche Teofrasto. Questi sono propensi a credere che l'intelletto accolga quanto possiede dal principio da cui dipende, e attingendo a esso renda manifeste le qualità morali e intellettuali da lui possedute, e in tal modo si allontanano dal pensiero aristotelico e dalle sue rielaborazioni compiute dai Peripatetici, convinti da un lato che la materia sia potenza assoluta e principio di alterità delle sostanze separate, dall'altro che l'intelletto appartenga all'anima e sia da principio sprovvisto di qualsiasi contenuto attuale. (Michele De Lazzer)
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